I caselli di Porta Venezia che segnano l'inizio di Corso Buenos Aires, sono stati costruiti all'inizio dell'Ottocento quando ancora la porta era denominata Porta Orientale; solo dopo l'unificazione di Italia presero l'attuale nome in onore della città veneta ancora in mano agli austriaci. Se vi capita di entrate nel casello di destra (avendo alle spalle Corso Buenos Aires) - di proprietà dell'associazione panificatori - dove a volte si organizzano belle mostre di fotografia, salite fino al terrazzo e ammirate dall'alto il traffico di auto e persone. Un'isola, in un angolo frenetico di Milano.
Da qui inizia - verso Nord - una della vie commerciali più lunghe d'Europa (Corso Buenos Aires); verso Sud, Corso Venezia che con i suoi eleganti palazzi di fine Ottocento costeggia i Giardini Montanelli per arrivare fino al cuore di Milano.
Il giro inizia dallo slargo davanti i caselli, Piazza Oberdan, dove è possibile trovare qualche volume antico o a basso prezzo tra i chioschi che vendono libri e fumetti. Dei bouquinistes milanesi, per intenderci. E camminando sull'asfalto in alcuni punti rigonfio, si possono vedere dei rattoppi che chiudono dei lucernari. Sotto la piazza, infatti, vi è l'ultimo diurno milanese, il Diurno Venezia, funzionante ancora una decina di anni fa. Il barbiere ha resistito fino al 2008. Un gioiello del liberty, intriso di muffa e odori stantii. Dalle scale che portano alla metropolitana, si può vedere il vecchio ingresso. Nella piazza vi campeggiano anche due colonne corinzie, una di questa nasconde la canna che faceva uscire i vapori e il fumo della caldaia.
A chiudere la piazza, alla fine di via Tadino, lo spazio Oberdan, gestito dalla Provincia di Milano, in cui si tengono delle mostre e si proiettano film d’essai.
Dalla parte opposta, rispetto al Corso, c’è l’Hotel Diana Majestic, uno stabile di inizio novecento, che occupa il luogo del vecchio Bagno Diana (aperto nel 1842), la prima piscina pubblica italiana, riservata all’inizio ai soli uomini. Il nome era altisonante: “stabilimento di esercizio e scuola di nuoto”. La piscina era alimentata, particolare suggestivo, dall’acqua di una roggia che tutt’ora passa – interrata - a lato del corso. Può sembrare strano, ma come tutta Milano, quest’area era ricca d’acqua: lungo il perimetro dei vecchi bastioni spagnoli, adesso la circonvallazione interna, defluiva un altro canale, il Redefossi. Ora vi scorrono solo i tram. Tornando al Bagno Diana, all’inizio del secolo fu trasformato in un edificio liberty; e adesso è possibile mischiarsi, oltrepassando una pesante tenda di velluto nero, con gli ospiti modaioli dell’Hotel per prendere un aperitivo nel giardino interno che occupa il posto della vecchia piscina.
Addentrandosi per le vie, verso Nord, ci si immette verso un mondo liberty, in quello che era il quartiere generale della prima grande azienda di trasporti milanese. In via Malpighi ai numeri 3 e 12, ci sono due magnifici esempi (la casa Garimberti e la Casa Guazzoni) costruiti nei primi anni del novecento dall’architetto Giovan Battista Bossi. Nella prima costruzione si può vedere una versione festosa e disinvolta del liberty, con la facciata ricoperta di figure in ceramica, donne e uomini sotto pergolati e fiori. E in un negozio di questo stabile, accanto a un ristorante di una catena di successo molto trandy, resiste ancora un barbiere con tanto di seggiola con cavallo rosso per bambini e un pastificio dove comprare dell’ottima pasta fresca.
All’angolo con via Melzo, la Casa Guazzoni ha, all’interno, le più belle scale liberty di Milano e una facciata con un fitto intreccio di putti e di ghirlande scolpite nel cemento dei balconi e delle balaustre. E in questo incrocio c’è anche l’ex cinema Dumont, del 1910, adesso trasformato in biblioteca, con un busto di donna che, dal timpano, guarda austera i passanti. Un crogiolo di razze che fa di questo angolo di Milano la parte più multietnica della città, da eritrei con vestiti lunghi e sgargianti, a signore italiche che avanzano lente tirando il trolley della spesa, alla ragazza asiatica che parla al telefono in perfetto italiano.
E tornando all’azienda di trasporti, da qui partivano le carrozze della Società Anonima Omnibus e Tramways, che gestì la rete dei tramway di Milano e la prima linea di tram a cavalli tra Milano e Monza, inaugurata nel 1876 dal Principe Umberto. A fine ottocento vi erano 10 scuderie per un totale di 580 cavalli; la roggia Geranzana, quella stessa che riforniva i Bagni Diana, alimentava gli abbeveratoi delle stalle. L'ultima corsa dell’ippovia Milano-Monza è del 30 dicembre 1900, poi subentrò l’era dell’elettricità. Nel 1901 lo stabilimento fu quasi totalmente demolito per creare appunto il quartiere liberty.
Rimangono comunque tre scuderie in via Sirtori, al 32 e al 26: colonne in pietra e copertura a capriate lignee di quello che doveva essere il fienile. Immaginate l’odore e il fermento prima di partire per una corsa metropolitana. Signori, si parte, attenzione a non far imbizzarrire i cavalli!
Tornando verso il Corso Buenos Aires, si percorre via Melzo per incrociare Via Spallanzani, sotto i cui ciottoli scorre la roggia Gerenzana e che porta, voltando a destra, alla Chiesa di San Francesca Romana, di origine seicentesca. La facciata è stata aggiunta nell’ottocento, l’abside è un discreto esempio di barocco minore lombardo. Adesso sembra un’entità estranea alla frenesia da shopping, inserita qui per caso, ma l’istituzione religiosa è stata il nucleo di aggregazione del quartiere quando qui, nel seicento, era ancora campagna, fuori dalla Porta Orientale e la via Spallanzani era la via che conduceva alla città.
Dalla piazza si percorre la parte terminale di Viale Regina Giovanna, aperto su quello che era il tracciato del cavalcavia della ferrovia che portava alla vecchia stazione centrale posta in Piazza Repubblica. Si attraversa il Corso – un frenetico susseguirsi di negozi, con i passanti che sì accalcano nei marciapiedi quasi urtandosi con le borse piene di acquisti (magari ci sarà pure un post sulle mille possibilità di consumare la carta di credito facendo meno di un chilometro) e si entra in quello che era il Lazzaretto di Milano. Le guide turistiche dicono di manzoniana memoria, ma di quel passato si possono vedere solo qualche dettaglio, adesso queste strade sono il fulcro della Milano cosmopolita e multietnica.
Il Lazzaretto, costruito tra la fine del quattrocento e l’inizio del cinquecento, aveva la funzione di accogliere i malati durante le pestilenze, l’ultima è stata quella del 1630 raccontata nei Promessi Sposi. Dopo quella data, la struttura ebbe diverse funzioni, tra cui caserma e abitazione abusiva di gente povera. Alla fine dell’ottocento viene distrutto e il terreno venduto a lotti, nasce così un rete di strade strette e palazzotti alti. Resti del vecchio Lazzaretto si trovano nel cortile del palazzo al n°1 di Corso Buenos Aires, dove si trovano le vecchie colonne del porticato e poi svoltando in Via San Gregorio -non prima di aver notato all’angolo l’edificio adesso occupato dalla Benetton, un tempo una caserma austriaca costruita nel 1820 – se ne osserva un tratto integro con anche il fossato e comignoli dei camini. Verso l’interno, un pezzo del porticato su cui si aprivano le celle per gli ammalati. Oggi è la sede di una chiesa ortodossa. Entrate e respirate l’incenso e, sono certo che, dopo qualche minuto, farete fatica a ricordare dove siete davvero.
Il giro prosegue per via Tadino, sede di importati gallerie d’arte come la Gio-Marconi al n°15 e lo spazio culturale Zero (al n°20, in vecchio laboratorio di un cortile dal sapore antico, tra Via San Gregorio e Via Boscovich), da poco trasferito in questa sede. Questa zona, infatti, sta diventando ricca di eventi culturali, spesso underground, con contaminazione di genere e culture – un altro luogo da tenere d’occhio in questo momento è Peep-Hole, nella corte di via Castaldi 33 – che spesso insieme alle altre due gallerie organizzano eventi e inaugurazioni collettive che fanno di Porta Venezia uno dei quartieri più vivi della città.
Arrivati poi in Viale Tunisia, si svolta verso destra per arrivare al centro del vecchio Lazzaretto, rappresentato dalla chiesa di San Carlo al Lazzaretto, fatta costruire da Borromeo e terminata nel ‘600 dopo l’epidemia di peste del 1576 che colpì Milano. All’inizio, tra il 1520 e il 1560, vi era solo una cappella a pianta quadrata, costituita da quattro colonne e altrettanti archi che sostenevano una tettoia. Era aperta da tutti i lati, in modo da consentire agli ammalati di guardare la celebrazione della messa. Guardare soltanto, però, perché agli appestati non era consentito uscire dalla propria cella, né stare in gruppo, per via del rischio di contagio. La messa, quindi, era seguita da lontano e i gesti del sacerdote appena intuiti. Nel 1796 arriva Napoleone e nel Lazzaretto trasformato in caserma per i suoi soldati, la chiesa diventa un tempio pagano. Solo alla fine dell’Ottocento, quando il Lazzaretto viene venduto a pezzi, la chiesa viene acquistata dalla parrocchia di Santa Francesca Romana, incontrata prima, e le viene dato il suo nome attuale. In una tela sopra l’altare si può vedere, appunto, San Carlo che conforta i malati.
Lasciando alle spalle la chiesa, percorrendo Via Lecco verso i bastioni, si va verso il cuore pulsante di vita della zona, con locali e ristoranti. Il Mono, ritrovo di omosessuali e ragazzi vestiti all’ultima moda che durante il fine settimana occupano tutto l’incrocio con via Castaldi, lo Zoom (poco oltre sulla destra in Via Castaldi) locale underground, con un soffitto in pietra, in cui ci si può scatenare ballando al ritmo della musica di deejay emergenti, o all’angolo con Viale Vittorio Veneto, il Frank, locale dagli interni raffinati, bianco/nero, pieno di belle ragazze che sorseggiano drink accanto a uomini danarosi, con il SUV parcheggiato in doppia fila.
Si svolta a destra per far ritorno in Piazza Oberdan e se siete stanchi, attraversate il viale e riposatevi ai Giardini, poco oltre i caselli di Porta Venezia.